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2013: il pop in 7 date

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Pharrell Thom Yorke Miley Cyrus One Direction
Lorde Michele Bravi Beyoncé Tweet

 

20 marzo: esce il video di “Blurred Lines” di Robin Thicke / 19 aprile: i Daft Punk pubblicano “Get Lucky”

Come il mito della Fenice, il pop è fatto di grandiose risurrezioni. C’è stato un periodo non troppo lontano in cui Pharrell Williams aveva le chiavi della top 10 e, se lo prendevi per mano, ti ci lasciava entrare. Da solo, come Neptunes o come N*E*R*D, il suo stile s’imponeva o si adattava a clienti in cerca della hit definitiva. La svolta di Britney Spears (“I’m a Slave 4 U”, 2001), l’emancipazione di Justin Timberlake (“Like I Love You”, 2002), la conferma di Nelly (“Hot in Herre”, 2001) e Kelis (“Milkshake”, 2003), il grande ritorno di Snoop Dogg (“Drop It Like It’s Hot”, 2004), la salvezza di Gwen Stefani (“Hollaback Girl”, 2005): Pharrell dominava il mercato con canzoni all’apparenza fatte di niente. C’erano solo beat ossessivi che rendevano sensuale qualsiasi forma di vita ci cantasse sopra, ed erano in grado di trasformare una popstar in un artista credibile o un rapper credibile in una popstar pronta per mangiarsi le radio. Ma il monopolio – suo e di Timbaland – non poteva durare in eterno e quei suoni raggiunsero il punto di saturazione e la data di scadenza: 19 aprile 2008, giorno dell’uscita di Hard Candy di Madonna, santa protettrice del buzzkill. Madonna, forse per la prima volta nella sua carriera, seguì il mainstream anziché dettarne le regole, trascinandosi dietro tutti i complici nel baratro. Il disco suonava già vecchio, le produzioni erano stanche e prive di idee quanto i loro artefici. E nel frattempo, il pop era già andato a ricostruirsi l’imene all’indie club.

PharrellWAvanti veloce fino al 2013 e il dimenticatissimo Robin Thicke si mette a ballare con Pharrell, T.I. e tre modelle che hanno firmato un nudity rider molto permissivo (ammesso che l’abbiano firmato). Il brano, curiosamente, è poco più che un rimaneggiamento di “Give It 2 Me” di Madonna nonché un plagio (secondo gli eredi di Marvin Gaye) di “Got to Give It Up”. Gli autori sembrano gli unici a crederci, al punto che la casa discografica inizia a interessarsene solo dopo avere visto il video (pagato invece dall’agente di Thicke). “Blurred Lines” cattura gli occhi col metodo più vecchio del mondo e le orecchie col suono della prima metà degli anni zero.

Quasi in contemporanea, scatta un’improvvisa voglia di Daft Punk. I robot trovano in Pharrell il vocalist ideale: affermato e versatile, ma tutto sommato poco ingombrante. Del resto, c’è già tanta carne al fuoco e la voce non deve oscurare la meticolosa campagna di teaser titillanti. “Get Lucky” l’avrebbero potuta cantare in molti e con risultati poco diversi, ma un artista più noto (Justin Timberlake?) o più hypato (Frank Ocean?) avrebbe distolto l’attenzione dalle lucine sui caschi.

Pharrell diventa il volto e il veicolo del riscatto per un cantante R&B di serie B che non vedeva la Top 40 americana da secoli e per un duo che non azzeccava un disco da dieci anni (ma che doveva ancora riscuotere i benefici di quel tour con la piramide). “Blurred Lines” e “Get Lucky”, canzoni di scopare poste su due livelli di raffinatezza nemmeno così distanti (è solo che i francesi sono più bravi a usare francesismi), lottano nelle classifiche per tutta l’estate. A turno, sono una l’ostacolo dell’altra, ma Pharrell vince in ogni caso.

Dopo essere finito nell’ultimo album di Beyoncé, nel 2014 si dovrà occupare delle produzioni di Chris Brown e Kylie Minogue, ma soprattutto del suo nuovo disco solista. Il singolo “Happy”, con un video danzante di 24 ore, è la manifestazione musicale del sorriso di chi ha ritrovato le chiavi della top 10 e ha deciso di restarci per un po’. Perché il pop è fatto di grandiose risurrezioni, like the legend of the Phoenix.

15 luglio: Thom Yorke cancella la sua musica da Spotify

Chi ha Deezer o Spotify diventa presto un animale curioso, ma allo stesso tempo molto pigro: se cerco e non trovo qualcosa, a meno che non mi interessi tantissimo, non faccio il giro di perlustrazione anche su YouTube e Soundcloud. Semplicemente non lo ascolto. E con tutta la roba che c’è da ascoltare, forse non lo ascolterò mai più. Questo implica che non solo non comprerò il disco di quell’artista, ma non andrò al un suo concerto né comprerò le sue magliette né segnalerò le sue produzioni ai miei contatti online o ai miei amici una sera a cena. Vuoi per il geoblock, vuoi per l’assenza di un accordo tra l’etichetta e la piattaforma che uso, quell’artista rischia di passare sotto il radar. E se quell’artista è un indipendente o esordiente senza grande distribuzione o passaggi radiofonici garantiti, ha firmato la sua condanna all’insuccesso.

È esattamente il contrario di quello che hanno sostenuto nel 2013 David Byrne e Thom Yorke. Quest’ultimo, con una mossa molto discussa che gli fa meritare il titolo di barbagianni dell’anno, ha tolto le sue produzioni dalle piattaforme digitali. L’ha fatto, dice, per solidarietà verso quei nuovi artisti che mettono la loro musica online guadagnandoci pochissimo. Come se oggi un gruppo indie che non ha alcuna speranza di entrare in classifica potesse fare chissà quali soldoni. Si diceva la stessa cosa quando Deezer e Spotify non esistevano e gli album, molto più semplicemente, li scaricavi da Rapidshare o eMule. In quel caso, nemmeno le noccioline.
YorkeSono concetti che Thom Yorke forse non può afferrare: non tutti hanno nel taschino una “Creep” con cui esordire e sistemarsi a vita comunque vadano le cose; non tutti al secondo album sono già star internazionali; non tutti possono permettersi di aggirare il marketing tradizionale perché vantano un interesse così imponente da parte del proprio pubblico. Oggi l’interesse si costruisce rilasciando contenuti gratuiti perché i soldi arriveranno (si spera) da altri canali. Lo fanno notare anche alcuni addetti ai lavori intervistati da Wired: ok, con quei pochi centesimi di euro di Spotify non si va da nessuna parte, ma la visibilità è essenziale per sostenere un tour.

Madonna nel 2012 ha tirato fuori un album di rara pochezza che ha venduto le copie che meritava (poche), ma col tour ha incassato 300 milioni di dollari. Forse avremo tour più belli e album più brutti e i tour finanzieranno sempre gli album e non viceversa. O inizieremo a farci piacere gli accordi come quelli stipulati tra Jay-Z e Samsung o tra Lady Gaga e O2. O ci adegueremo all’idea che nessuno potrà permettersi di spendere un milione di dollari per un album come Random Access Memories, concentrandosi su minuzie che sentiranno solo le orecchie dei due perfezionisti che l’hanno registrato. Eppure è proprio Thomas Bangalter, intervistato a maggio da Zane Lowe, a offrire uno dei punti di vista più interessanti sulla crisi discografica: “Quelli che lo facevano solo per soldi, se ne sono andati da un pezzo”. La musica resiste, chi oggi decide di diventare un musicista lo fa con la consapevolezza che da un passaggio in streaming si guadagnano 0,007 dollari, ma anche che non è mai stato così facile farsi vedere e ascoltare come in questo periodo storico. I Thom Yorke, i David Byrne e i Gino Paoli possono adeguarsi o, come dice Moby, fare la figura dei vecchi bacucchi che imprecano ai treni veloci.

25 agosto: Miley Cyrus si esibisce agli MTV Video Music Awards

Per tre anni, Vanessa Bayer ha interpretato Miley Cyrus all’interno di Saturday Night Live. Nei suoi sketch, l’attrice imitava l’ex star di Disney Channel in un programma immaginario dove intervistava personaggi famosi e cantava col padre Billy Ray (interpretato da Bryan Cranson o Jason Sudeikis). Mentre la Miley reale finiva sui siti di gossip in un crescendo di mosse incaute (perlopiù storie di droghe leggere), l’imitazione di Bayer rifletteva ancora l’immagine che tanto piaceva all’America qualche anno prima: un’adolescente forse poco brillante, ma genuina, con un padre invadente da zittire, un sorriso pieno di dentoni e una pessima postura. Bayer sembrava quasi farle un favore, era quasi un tentativo di salvataggio non ufficiale: la Miley del mondo reale infilava un pasticcio mediatico dietro l’altro, quella finta si scusava per lei; la Miley del mondo reale, quella fotografata con un bong in mano o una torta di compleanno fallica, doveva essere meno reale della sua imitazione. Perché Hannah Montana non farebbe mai quelle cose lì.

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Tocca proprio a Vanessa Bayer presentare Miley Cyrus ai Video Music Awards di Brooklyn e, pochi secondi dopo, la cantante sta interpretando la scena madre nel copione della ragazzina prodigio finalmente liberata. Tuttavia, rispetto ai casi precedenti, c’è un’importante differenza ad amplificarne l’impatto: quando Britney Spears e Christina Aguilera uscirono dal Mickey Mouse Club e si affacciarono sul pop, non erano personaggi altrettanto riconoscibili (soprattutto fuori dal Nord America); quando iniziarono a svestirsi, ricoprirsi di unto e ansimare nei video, avevano già fatto dimenticare da un pezzo il loro legame con Topolino. Hannah Montana, invece, fu un fenomeno televisivo e discografico globale fino al 2011 e ora Miley lo sta mettendo al rogo in maniera tanto infantile (gli orsacchiotti, i codini, le linguacce) quanto matura (la provocazione, la nudità, il twerking sul pacco di Robin Thicke, l’analingus a una ballerina).

Cinque minuti dopo, il mondo non vuole parlare d’altro (lo sfruttamento della donna giovane, della donna nera, della donna nana) e nessuno poteva prevederlo tranne MTV, le cui telecamere stavano già seguendo la cantante per un documentario. Miley: The Movement viene trasmesso quando si è già all’ultimo punto della seguente curva dello scandalo pop: “dramma –> sdrammatizzazione –> sdoganamento” (ovvero “editoriali incazzati e lettere aperte –> meme spiritosi –> è una cosa che esiste”). Per commentare l’esibizione, durante il documentario la cantante conia la definizione chiave: strategic hot mess, ma si spiega ancora meglio ai microfoni di Radio One:

C’è un episodio di Friends in cui [Monica canta al karaoke] e pensa che il pubblico la adori, ma poi capisce che tutti stanno gridando solo perché indossa una maglia trasparente. Chandler glielo fa notare e lei fa: “Non mi interessa, mi amano!”. Io sono proprio così. I ragazzi che cambiano canale perché sta per arrivare Miley Cyrus sanno che sarò come minimo mezza nuda. Così la gente si ferma più a lungo. E poi diranno: “Un attimo, questa sa cantare sul serio!”

In questa dichiarazione c’è tutto: il riferimento culturale accessibile (e non scontato, per una nata nel ’92), l’autoironia, la consapevolezza del proprio talento di popstar e soprattutto la lucida analisi del proprio ruolo all’interno dell’immaginario collettivo. La strategia di Miley era molto semplice, esiste da sempre e, anche se non si è inventata nulla di nuovo, ci siamo cascati tutti.

Quando Miley partecipa a Saturday Night Live per condurlo a ottobre, si presta a uno sketch in cui Vanessa Bayer interpreta il fantasma della prima Miley e lei, ovviamente, quella attuale. Le due sono dietro le quinte dei VMAs e old Miley cerca di fermare l’alter-ego del futuro: non sarà lo shutdown a portare l’America al declino, bensì la sua esibizione. Lo sketch inquadra benissimo la portata del fenomeno perché c’è già un prima e dopo Miley ai VMAs. È un altro tipo di shutdown: è uno di quegli eventi che permettono, periodicamente, di resettare la cultura popolare. Almeno fino al prossimo scandalo, ci sembrerà che nessuno sia mai stato altrettanto spudorato o abile nel manipolare l’opinione pubblica per vendere dischi.

30 agosto: esce nelle sale This Is Us, il film degli One Direction

onedirectionQuest’estate, durante gli MTV Awards di Firenze, si è tenuta l’Artist Saga, un torneo a eliminazione in cui i fan votavano il loro preferito con un hashtag. La mole di tweet negli ultimi due giorni ha toccato il milione, rendendolo l’evento televisivo italiano più social della storia. I primi due classificati sono stati Marco Mengoni e Alessandra Amoroso, che hanno battuto di pochi punti percentuali, rispettivamente, la boyband coreana SuperJunior e gli One Direction. Non può stupire che a spuntarla siano stati due artisti autoctoni, ma gli hashtag arrivavano da tutto il mondo a una velocità incredibile. Il fatto che in Corea, in Brasile, in Giappone ci fossero persone che, fuso orario nonostante, si organizzavano online per far vincere ai loro beniamini un premio tutto italiano in una piazza di Firenze è sintomatico del livello di fandom attuale. Essere fan oggi è una missione e un impiego a tempo pieno, e le directioner sono quelle che lavorano più duramente non solo per sostenere i loro idoli, ma anche per difenderli dagli “attacchi” che una boyband con una tale esposizione è destinata a ricevere – dai media, dagli adulti, dalle fan di altri artisti.

Ad agosto, sono usciti due documentari sugli One Direction. Uno, This Is Us, era ufficiale e l’ha girato un irriconoscibile Morgan Spurlock prendendo una barca di soldi per dare alle directioner esattamente quello che volevano – e in 3D! Spurlock non si è occupato di rendere il fenomeno interessante a chi non è già fan: malgrado alcuni momenti di spontaneità filmati dietro le quinte del tour, This Is Us era un lungo e patinato concert film. L’altro documentario, Crazy About One Direction, era di Channel4, non era autorizzato e non seguiva la band, ma un gruppo di fan di diversa età ed estrazione sociale. Non faceva sognare: documentava la passione di alcune ragazze e le loro delusioni. C’era quella che moriva d’invidia perché era una fan della prima ora ma non aveva l’autografo come tante altre; c’era quella che non poteva permettersi i soldi per un biglietto e la troupe non la mandava al concerto, ma a farsi le foto coi suoi beniamini di cera al Madame Tussaud. Crazy About One Direction, al contrario di This Is Us, era un vero documentario, ma era anche il ritratto molto tenero e discreto di quella fase di adulazione per la star di turno che attraversano in tante. Era inoltre la prima testimonianza mainstream del fenomeno Larry Stylinson, portmanteau che identifica la storia d’amore segreta tra i membri Harry Styles e Louis Tomlinson in cui molti vogliono credere.

La cosa non è piaciuta a una frangia di directioner e, già durante la messa in onda, le fan che si sentivano poco rappresentate hanno fatto girare su Twitter la voce che prima 14, poi 42, poi più di 100 ragazze si erano suicidate a causa del documentario. Questo succedeva qualche settimana dopo la pubblicazione di un numero di GQ che era piaciuto ancora meno alle fan degli 1D e soprattutto del caps-lock. Le cinque copertine dedicate ai membri della band avevano mandato in tilt il sito della rivista e cosparso le loro mention di minacce di morte molto creative. Insomma, a volte si ammazzano, a volte ti vogliono ammazzare.

Viene da chiedersi se essere fan oggi comporti meccanismi diversi rispetto al passato. Abbiamo visto tutti le scene d’isteria per i Beatles nei filmati di repertorio, abbiamo visto Sposerò Simon Le Bon, sappiamo che il governo inglese mise a disposizione un telefono verde quando Robbie lasciò i Take That. Eppure, la ragazza bolognese che a fine 2012 ebbe la fortuna e la sfortuna di vincere un biglietto per un concerto degli 1D a New York non se la passa mica bene. Dieci anni fa avrebbe suscitato la stessa invidia tra le coetanee, ma gli effetti sarebbero stati circoscrivibili al suo liceo o al massimo alla sua città. Oggi quella ragazza è un bersaglio mobile: identificabile, googolabile e soprattutto minacciabile (ed è dura dirle: “Un giorno tutto questo sarà solo un aneddoto di cui ridere!” mentre l’additano per strada e le insultano la famiglia per avere avuto la disgrazia di vincere un concorso).

Viene da chiedersi: se le fan dei Take That avessero avuto Tumblr, avrebbero inventato Gobbie Warlow? E se Clizia Gurrado avesse avuto Twitter? E se un fan di John Lennon avesse avuto una pistola? Ops.

2 ottobre: “Royals” di Lorde è prima in classifica negli Stati Uniti 

LordeNon esiste un articolo, una recensione o un profilo su Lorde che non specifichi gli anni della cantautrice: 16 (o 17 se è stato scritto dopo novembre). Certo, l’età di una popstar ha sempre avuto un peso (soprattutto da quando i talent show hanno deciso che sopra i 24 anni si finisce nella categoria Senior), ma nel caso di Lorde non è un dettaglio curioso: è un aspetto essenziale del suo ipertesto. La storia che la sua etichetta, e poi la stampa, le hanno costruito intorno ha quasi un sapore mitologico. C’è un aneddoto della madre che, una notte, svegliò suo marito perché aveva sentito dei rumori dalla stanza dei bambini e, quando andarono a controllare, ci trovarono la piccola che leggeva una pila di libri – a 18 mesi. O di quella volta che scoprirono che aveva un’età mentale di 21 anni facendola esaminare a 6. O di come firmò il suo contratto discografico a 12, rifiutandosi di cantare cover perché voleva scrivere i testi. Non c’è ragione di dubitare di tutto ciò, ma se domani ci dicessero che è stata partorita da un mal di testa di Zeus, probabilmente non ci stupiremmo.

Eppure in Lorde c’è davvero qualcosa di prodigioso – e non sono le sue storie di enfant prodige in cui pochissimi potrebbero riconoscersi. È entrata in sintonia coi suoi ascoltatori parlando come loro, ma assumendo il ruolo della più saggia della cumpa. Sa descrivere le dinamiche di una festa tra adolescenti meglio di certe popstar che immaginano che nel mondo là fuori la gente non viva di danze goffe, birrette attaccati ai muri e vicini di casa che chiedono di abbassare il volume, bensì di party estremi ai limiti della legalità. Una serata raccontata da Ke$ha o Pitbull per alcuni può essere un’aspirazione, ma chi vuole una visone meno distorta, fa meglio ad affidarsi a “Buzzcut Season” o “Royals”. Quest’ultima è stata più di una canzone: è stato un gigantesco reality check. Non ci faremo mai i denti d’oro, non avremo mai orologi di diamanti, non avremo mai la possibilità di sfasciare una stanza d’albergo (senza pagarne le conseguenze); non ce l’abbiamo nel sangue e non ce ne frega niente perché we crave a different kind of buzz. E Lorde, che si offriva come guida ideale di questo movimento anti-sboroni, certo non immaginava la sarebbe diventata veramente (let me live that fantasy).

“Royals” è stato un successo organico come non se ne vedevano da tempo. Non essendoci più MySpace (ci avevamo fatto l’abitudine, alla bugia “ho messo un pezzo su MySpace e mi è cascato un contratto dal cielo”), la gara a chi ha influito maggiormente sul fenomeno è tra Spotify e Buzzfeed. I primi dicono che “Royals” ha fatto il botto dopo essere stata inserita nella playlist di uno dei suoi maggiori investitori; i secondi dicono che le vendite su iTunes sono schizzate dopo un articolo nella loro homepage. Ma il problema di un successo organico simile è che non è possibile quantificare se un sito o una piattaforma abbiano avuto più peso dei vestiti clamorosamente fuori moda, le interviste centratissime, gli aneddoti prodigiosi o la semplice voglia di sentire una voce autentica. Autentica come poteva essere solo una sedicenne che prima di quest’anno non aveva mai preso un aereo e che non si era mai allontanata dalla periferia della periferia dell’impero sul quale ora regna.

12 dicembre: Michele Bravi vince la settima edizione italiana di X Factor

MicheleBDopo sette edizioni italiane di X Factor, e soprattutto tre di Sky, abbiamo capito qual è il fetish del suo pubblico. Al secondo posto arriva sempre l’opzione semi-seria: nell’ordine, Moderni, Ics, Ape Escape. Tre proposte vagamente crossover, timidamente rap, forzatamente contemporanee in cui nessuno crede davvero, nemmeno quando sono lì che tengono la mano del vincitore prima che Cattelan lo ufficializzi. Puntata dopo puntata s’impongono diventando meme più o meno consapevoli e prestandosi al gioco. Mentre altri concorrenti più dotati si battono puntando al cuore del pubblico e alle loro carte di credito registrate su iTunes, i novelty act giocano un campionato parallelo: si può essere indecisi tra Michele e Violetta, ma non tra Michele e gli Ape Escape o Violetta e gli Ape Escape. Mentre Michele e Violetta potrebbero rubarsi voti a vicenda, gli Ape Escape viaggiano tranquilli fino al secondo posto facendo leva su quella misteriosa minoranza che non capisce quando un bel gioco dura poco. Poi, alla prova dei fatti, il successo discografico dei novelty act è improbabile quanto i loro vestiti e le loro pettinature, e ce li ritroviamo un anno dopo come testimonial di hamburger (Moderni) o salsicce (Ics). Chissà se gli Ape Escape continueranno sul filone della carne macinata o faranno una svolta inaspettata: prodotti caseari. O addirittura un disco.

Il primo posto ormai segue logiche altrettanto prevedibili ma non per questo sbagliate. Con Francesca Michielin, Chiara Galiazzo e Michele Bravi, abbiamo scoperto che nessuna arma è più forte della propria inconsapevolezza. Tre cantanti con doti evidenti, che sembrano passare di lì per caso finché non aprono la bocca. Non prenderebbero molti punti in una gara in cui avesse peso l’accezione più classica di “presenza scenica”, ma si mangiano il palco senza ammiccamenti e senza dovere accennare mezza coreografia. Arrivano in finale nonostante (e non grazie a) gli esperimenti dei giudici, e lo fanno con la discrezione di chi non sembra rendersi conto di essere già una star. E mentre il panorama musicale italiano continua a popolarsi di gente che fa a gara a chi strilla più forte (o rappa più veloce) le banalità più clamorose, gli ultimi vincitori del talent s’impongono come timidi giganti coronati da cuoricini emoji. Michele, con l’aiuto inestimabile del miglior cantautore italiano in attività, ci ha fatto sperare nel suo successo senza nemmeno capacitarsene. Perché l’umiltà (quella vera, non quella starnazzata da certe urlatrici col pigiama monocromatico su Canale5) è il vero fetish del pubblico di X Factor. E finora, è andata benissimo così.

13 dicembre: Beyoncé pubblica un album a sorpresa su iTunes

C’erano una volta le Spice Girls e il loro motto era girl power. Quasi vent’anni dopo, il loro contributo alla cultura popolare (soprattutto britannica) è ancora motivo di discussione. Secondo alcuni, erano un modello che faceva sentire le ragazzine importanti e sicure di sé: ognuna poteva vedere i tratti del suo carattere o del suo fisico in una di loro, e chi voleva prenderti in giro perché eri mulatta/ginger/un maschiaccio, aveva qualche problema in più. Secondo altri, le Spice Girls erano invece cinque bombe di marketing stonatucce che, dall’alto delle loro zeppe, confondevano il femminismo con l’arroganza e il pizzicare la chiappa di un erede al trono. Grazie alle Spice Girls, ne è venuta fuori una generazione di donne più potenti o un esercito di cloni di Vicky Pollard?

A metà dicembre, Beyoncé ha pubblicato un album a sorpresa e senza marketing preventivo (dove per “senza marketing preventivo” s’intende un documentario HBO, due spot per H&M e Pepsi, un tour mondiale, un SuperBowl, un’inaugurazione di Obama). Tra quelli che urlavano perché la loro vita era appena stata resa perfetta e completa da 14 canzoni, c’erano anche quelli che gioivano perché era “un manifesto femminista”. In “***Flawless”, Beyoncé campiona infatti un discorso di TED di Chimamanda Ngozi Adichie. Proprio in quel frammento di “We Should All Be Feminists”, la scrittrice nigeriana usa parole molto chiare che sarebbe difficile interpretare male: nell’educazione, non bisogna dare troppa importanza al matrimonio e all’aspetto fisico.

In quanto al matrimonio, non sembra sia una cosetta da poco nel sistema di valori di Beyoncé, dato che il suo ultimo tour si chiama Ms. Carter. E nella sua canzone più famosa, “Single Ladies (Put A Ring On It)”, criticava l’uomo che non volle chiederle la mano pur volendolo ancora. Quell’anello sembrava una ragione di vita. Per quel che riguarda l’aspetto fisico, stiamo parlando di una cantante che chiese a Buzzfeed di togliere dal sito alcune foto venute male, e che, insomma, alla sua flawlessness sembra tenerci parecchio.

BeyonceMa Beyoncé è una popstar mondiale e, a quei livelli, il cerchiobottismo è una necessità. Se per fare contente le donne sembra bastare qualche affermazione di girl power o una critica alla chirurgia estetica e ai concorsi di bellezza efficace quanto un discorso della Boldrini (“Pretty Hurts”), per attrarre l’uomo, ci vuole tutto il resto dell’album e relativi videoclip. L’idea di sensualità di Beyoncé sembra più vicina a quella di Maxim che a quella di Chimamanda Ngozi Adichie, e mentre le femministe inglesi si battono per togliere i lads’ mags dai supermercati, c’è una sedicente femminista che ripropone quello stesso tipo di estetica nei suo visual album (e nella foto allegata alla cartella stampa: era un culo). Nell’universo di Beyoncé, per ogni “Independent Women Part II”, c’è una “Partition” (in cui l’unica cosa che le interessa è be the girl you like, e lui sembra apprezzare visto che he Monica Lewinsky’d all over my gown); per ogni “Run The World (Girls)”, c’è una “Rocket” (se quel video l’avesse fatto un’altra popstar, ne avremmo gli editoriali pieni).

Beyoncé è una figura potente che ama le larghe intese ed è arrivata dov’è flirtando con tutti i target possibili, aggiungendo alla lista anche quello delle femministe. Dubitare del femminismo di una persona che si considera femminista non è una cosa molto femminista da fare, ma davanti ad azioni così incoerenti sorge il sospetto che la cantante non stia davvero celebrando le donne: come al solito, sta solo celebrando se stessa.


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